venerdì 29 febbraio 2008

Sbarre

Pappagalli di ogni dimensione e colore schiamazzano nelle loro piccole gabbie appese sulla porta del negozio di animali. Sotto, criceti, conigli nani e pesci rossi si rigirano nelle piccole celle. Un caos di suoni e colori si contorce rinchiuso a scopo di lucro. Togliere la libertà ad innocenti per la felicità di altri, che la "libertà" se la comprano. Questa è la vita. Mi viene in mente tutta quella povera gente del terzo mondo. La loro infelicità, è la mia felicità di riflesso.
Ma nessuno è veramente libero. Gli animali vengono uccisi, torturati, ingabbiati, venduti. Ma le persone che comprano questi animali, queste innocenti vite, altro non fanno parte della stessa categoria. Come l'animale catturato non capisce cosa gli succede, l'uomo, vive la propria vita in una gabbia molto più grande e nascosta. Nascosta bene. Nascosta tra le righe di un mercato monetario, di un bisogno materialista. E' un mercato dello schiavismo.
Alzo gli occhi. Invece del cielo mi aspetto di vedere le sbarre.

giovedì 28 febbraio 2008

Repliche

Assurdo.
Esiste un altro ragazzo col mio nome e la mia solita data di nascita.
Com'è strano il mondo.
Per di più questa città non è una metropoli, ma non l'ho mai incontrato. Ho scoperto della sua esistenza all'agenzia per il lavoro. La donna del colloquio mi ha fatto notare questa coincidenza.
Da quel giorno penso solo a questo mio "fratello gemello". Come avrà vissuto la sua vita con quel nome e quella data di nascita? Fin da piccolo pensavo che la mia data di nascita fosse speciale e rapportavo il mio nome con quello degli altri, pensando che un bel nome, possa influire positivamente sul carattere dello stesso.
Il mio nome non mi è mai piaciuto granché. Forse è anche per questo che sono uno sfigato nella vita. Si, penso che le persone diventino quello che sono, in proporzione al nome e alla data di nascita. Poi c'è la vita privata, i genitori, la scuola, gli amici, le donne ecc che modellano un uomo, ma tutto parte col nome. L'ho sempre pensato ed ancora ne sono convinto.
Come l'avrà vissuta lui? Gli avrà creato disagio quel nome insignificante? Che lavoro fa? Sarà ricco? Perché non l'ho mai incontrato in tutti questi anni? D'altronde siamo coetanei.
Se cerco di immaginarmelo fisicamente, penso alla mia faccia, ma con un taglio di capelli diversi o un abbigliamento ed uno stile differente. Ma la faccia è la mia.

Magari è davvero così. Per qualche assurda coincidenza, quello sono io, nato due volte in due corpi separati. Un modello stampato due volte. Ma chi è quello originale? Chi la replica?
Per quanto ne so, io sono fisicamente reale, e lui è solo una mia immaginazione, una scheda di un computer. Solo numeri e pensieri. Io sono quello vero. Lui è l'impostore, lo scherzo della natura.
Credo che non lo incontrerò mai. Il mondo gira per strani versi, credo che qualcosa come il destino, abbia deciso che non potremmo mai incontrarci, perché se succedesse, crollerebbe la stabilità, la coerenza di questo mondo. Chissà quante repliche esistono al mondo.

mercoledì 27 febbraio 2008

Amore androide

LA DONNA PERFETTA. Non c'è miglior modo per descriverla. E' la donna perfetta per me. Lo sento. Bellissima, con un bel carattere. Questa volta è quella giusta. Tutte le delusioni in amore e poi gli anni di solitudine stavolta li caccerò via per sempre.
E' un'ottima compagna. Insieme ci divertiamo molto. Siamo perfetti. Presto le chiederò di sposarmi.
Devo solo trovarle un nome più carino. Non mi piace quello originale: Androide Dex-09TX.

martedì 26 febbraio 2008

Il paese di carta

Nella vita di H. tutto sembrava andare storto. Sicuramente non era un uomo fortunato, anzi, era già molto se era sopravvissuto fino all'età di 34 anni. Aveva cercato sempre di cavarsela nelle situazioni più dure, uscendone a testa alta, sempre solo. Era orfano da sempre, da poco aveva perso una figlia e era stato arrestato per un omicidio colposo, un reato che non aveva commesso. La moglie lo aveva lasciato per un altro. Le carte di credito erano state annullate ed aveva perso la casa al gioco. 34 anni di inferno. Sempre senza lavoro, in un paese che non aveva niente da offrirgli. Era da sempre, sul filo di una crisi di nervi. L'arresto e il carcere furono la goccia che fecero traboccare il vaso. Era impazzito.
Dopo una visita dallo psichiatra della prigione, che lo dichiarava ufficialmente pazzo, il direttore del laboratorio di medicina, il dottore J.K. poté finalmente annunciare ai megafoni istallati in tutto il paese:
"Qui parla il dottore J.K. Finalmente, oggi, dopo 34 anni, l'esperimento è riuscito. Abbiamo un resoconto completo dei limiti della sopportazione umana. H. è stato dichiarato pazzo. Complimenti a tutte le comparse per l'incredibile pazienza e per la disponibilità di tutti questi anni. Tutto il personale, compresi gli attori principale, possono da oggi stesso, lasciare il set del paese e cominciare una vita normale. Grazie di nuovo a tutti e buona fortuna."

lunedì 25 febbraio 2008

Operaio

A. aveva fatto di nuovo quel sogno. Da mesi sognava di svegliarsi nel suo letto, ma la stanza non era la stessa. Al posto del solito letto matrimoniale, un letto ad una piazza, con la coperta bianca. Di fianco a lui, invece del solito armadio dove divideva il guardaroba con la moglie, c'era un vecchio comodino con una lampada. Lungo il muro, nessun quadro, nessuno specchio. Solo il muro scrostato.
Il sogno era talmente reale che A. non sospettava minimamente di sognare.
Sapeva di essere vedovo, e di lavorare come operaio per una ditta che si occupava di generi alimentari. Era un sogno monotono: sempre gli stessi pensieri, gli stessi gesti, movimenti ripetuti alla nausea. Il solito lavoro che occupava gran parte della giornata. Nessun amico, nessun conoscente. Era solo. Il mondo gli passava davanti come un'immagine lontana.
Ogni mattina, A. si svegliava nella sua camera matrimoniale con questo incubo in testa. Ne aveva parlato alla moglie, ad alcuni amici più intimi. Tutti lo avevano liquidato con una frase di spirito, come se per A. fosse una cosa leggera.
Ma non era così. Presto A. si accorse di avere una malattia psichica: viveva due vite. Quando la sera andava a letto, si svegliava nell'altra vita e viceversa.
Cos'era reale? Quale delle due vite era solo uno stupido sogno? Non lo sapeva più.
A poco a poco, cominciò a diventare sempre più nervoso, sempre più fuori di se. Cercava di rimanere sveglio ma il sonno prendeva sempre e comunque il sopravvento, portandolo nella sua seconda vita.
Un giorno, sull'orlo di una crisi nervosa, A. senza rendersene conto, uscì dalla casa dove viveva solo, nella vita dove faceva il povero operaio e senza volerlo si ritrovò al cimitero. Qualcosa di vagamente familiare lo aiutò a camminare senza incertezze fra quelle tombe. Sapeva, seppur senza rendersene conto, di sapere già dove andare. Si fermò infine davanti ad una tomba vagamente conosciuta. Sulla croce poté leggere: Alberta Falco. Sua moglie morta.
Allora cominciò a ricordare tutto: l'incidente di cui si sentiva responsabile, la perdita del suo lavoro prestigioso, della casa, dei sensi di colpa, e infine della malattia che gli avevano diagnosticato.
Stanco e sofferente, tornò a casa e si addormentò. Il giorno dopo si sarebbe svegliato alle 6. Duro il lavoro dell'operaio.

domenica 24 febbraio 2008

Kill Kill

Cosa c'era di vero? Mi avevano veramente visto? Perché hanno parlato della mia macchina? E' stato un caso? Oh no...sicuramente mi volevano mettere in soggezione, pensano di avermi in pugno. Mi avranno davvero visto in quel parcheggio? Maledetti bastardi. Dovrò far fuori anche loro. L'ho notato come si divertivano alla vista del mio smarrimento quando hanno parlato dell'auto parcheggiata. Dovrò farli fuori. E' l'unica soluzione.

Cazzo cazzo cazzo cazzo....CAZZO........CAZZOO! Mi avranno visto? Forse no, bluffano. Forse era solo una coincidenza...no, non aveva senso andare a parlare della mia macchina di merda. Quella carretta è già tanto se mi porta in giro. Hanno detto che era perfetta per portarci una donna in giro, poi hanno riso di gusto. Merde.

E' stato un incidente. Ma non posso parlarne con nessuno. Tanto meno a quei figli di troia. Dopo avermi visto con quel cadavere, sicuramente non mi avrebbero creduto, ed io ho una reputazione ed una carriera da difendere. Non saranno due come loro a rovinarmi tutto.

L'ansia era troppo grande. Sono andato a trovare i miei due colleghi del 3° piano. Li ho fatti fuori. Li ho uccisi lentamente. Poco prima di morire, mi hanno chiesto perché facessi loro del male. Perché sapete della ragazza che ho ucciso e che ho nascosto nel bagagliaio, ovvio, risposi.
Con occhi stupiti mi hanno detto: Che donna? Noi non abbiamo visto niente.
Io non li ho creduti quei figli di puttana. SBANG! Ahah. Che sollievo.

Uscendo dal ripostiglio coi due sacchi neri pieni dei resti dei due cadaveri, la donna delle pulizie mi ha tirato un'occhiata strana. Che sappia qualcosa?

sabato 23 febbraio 2008

Sangue

Lacrime dal cielo.
La nebbia rendeva lontano e sbiadito tutto ciò che mi circondava. I muri bagnati erano gelidi, come pareti di ghiaccio. La terra si fece oscura e ostile. Dentro di me sensazioni che si scontravano creando confusi tumulti, ma tutto ciò che quella città ispirava, era solamente dolore.
La testa pulsava come se il cervello stesse per scoppiare.
Nausea.
Era stata la giornata più dura della mia vita: le lunghe ore di navigazione clandestina, lo sbarco e subito dopo, l'arresto. Le guardie speciali avevano sparato ad alcuni compagni che avevano tentato la fuga. Poi il dramma nel dramma.
Nella confusione di quegli attimi, vidi la possibilità di superare una cancellata per sfuggire alle guardie, così tentai di salvare le cose a me più care al mondo: la mia famiglia.
Ma invece di salvarle, le ho mandate in contro alla morte. Un'altra guardi è spuntata dall'edificio in fondo davanti a noi ed ha aperto il fuoco su di noi, disarmati, un uomo ed una donna impauriti e loro figlia di 10 anni.
Perché mi sono salvato? Perché? Sono stato io a spingerli a fuggire. Sono stato io ad ucciderli. Non mi merito di vivere. Ho perso tutto.
Arrancai ancora a lungo per le vie, senza una meta.
Mi ritrovai senza motivo al molo. Lo stesso molo dove qualche ora prima avevano ucciso la mia famiglia, dove mi avevano ucciso.
Mi avvicinai alla cancellata.
Le chiazze di sangue erano molto visibili anche alla penombra di un lampione.
Toccai il loro sangue: era freddo più dell'asfalto.
Di loro, di tutto il mio mondo, rimasero solamente alcune chiazze di sangue secco, sull'asfalto di un paese lontano da casa e i loro fantasmi, i loro ricordi. Senza saperlo, mi sdraiai accanto a quelle chiazze, piangendo. La testa che stava scoppiando, aumentò le pulsazioni. Persi i sensi.
Un milione di anni dopo, o almeno sembrava fossero passati milioni di anni, mi svegliai.
Alzai la testa e mi misi a sedere. Mi misi a guardare la scena intorno a me.
Era il giorno dello sbarco. Lo riconobbi subito: la confusione, la gente, ma soprattutto, mi vidi la, in mezzo, con loro due. Il cuore balzò così forte che per poco non svenni dall'emozione. Cominciai a gridare i loro nomi, cominciai a corrergli incontro. Niente. Nessuno mi vedeva e sentiva, ero invisibile. Rividi la scena come un film, rividi la vera scena, la realtà: la cancellata, io che aiuto mia moglie e la bambina, la breve corsa verso un posto sicuro, la guardia che spunta.

Non rimasi stupito, quando vidi la guardia che sparò e colpì solamente me, e nessun altro. Che il sangue cadde sull'asfalto e lo macchiò per sempre. Allora capii.

venerdì 8 febbraio 2008

Immagini

Cos'era quell'immagine che gli creava fastidio? Cosa lo pungeva così in profondità?
Cominciò a pensare e rivide la scena: sua madre con una sigaretta in mano accesa che gli diceva "Guarda Giacomo, guarda questa sigaretta!" La cosa era strana perché sua madre odiava le sigarette e mai ne avrebbe potuto sopportare l'odore, soprattutto in casa. La scena si era svolta poco prima, mentre giacomo saliva le scale con il cellulare in mano mentre chiamava un amico. Dalla porta laterale del corridoio, era spuntata sua madre con quella sigaretta, lui rimase stupito da questo, ma poi l'amico rispose al telefono e Giacomo per capirlo, si chiuse nella sua camera. Poi si era scordato di sua madre.
Ma ora se la ricordava. Però come in un sogno, tutto l'accaduto scorreva sul filo dell'incerto, sul filo tra la realtà e la fantasia.
Ma era successo davvero o me lo sono immaginato? Fece per tornare nel corridoio per chiederglielo, ma sentì il suo russare nella camera da letto. Non c'erano tracce di odori di sigarette nell'aria ne mozziconi. Sua madre ormai dormiva. Cos'era quell'immagine? Il ricordo vago gli creava fastidio. Lo viveva come un incubo sulla pelle. Un incubo surreale, viscido e sfuggevole. Se era un sogno, perché l'ho visto?
E se...se fosse la verità? Se adesso stessi sognando? Se la mia vita è un sogno, nel quale non riesco a comprendere la verità?

giovedì 7 febbraio 2008

Corso degli eventi

Un vecchio gatto solitario
dorme sulla carcassa di un'auto
un uomo anziano, ogni giorno
prende il gatto che dorme e lo posa
sul tetto del garage li accanto.

Una sorta di peccato originale.
Cambiare il corso normale degli eventi
significa alterare il flusso dello spazio e del tempo
e renderlo instabile.
Quell'uomo, ignaro delle sue azioni
mandò in rovina l'umanità
spostando un gatto che dormiva.

mercoledì 6 febbraio 2008

martedì 5 febbraio 2008

Oggetto alieno

All'alba del nuovo giorno, il guardiano della colonia, George S. uscì dal suo rifugio, per dare da mangiare agli animali della stalla. Ogni mattina, faceva la solita strada per raggiungere la stalla. A pochi passi dall'entrata, sulla destra del viottolo, nell'erba alta, un oggetto catturava sempre la sua attenzione. Si trattava di un cubo nero solido. Un cubo delle dimensioni di uno scatola di cartone.
Ogni giorni si chiedeva cosa ci facesse un oggetto del genere in quel posto: era del tutto fuori luogo. D'altronde non gli venne mai in mente di prenderlo, di spostarlo. Non aveva mai visto un oggetto del genere. Sembrava alieno in qualche modo.
Ogni mattina faceva le stesse supposizioni. Mai gli veniva in mente di prenderlo e capirne la consistenza o la provenienza.
Ormai faceva parte del paesaggio. Rendeva il giardino un antro misterioso. Chissà quali altri materiali alieni si nascondevano tra l'erba alta. Quante insidie.
Questi pensieri si inculcarono sempre di più, lentamente, come un'ossessione, nella testa di George, al punto di aver paura d'attraversare il proprio giardino.
Si rinchiuse nel suo rifugio, delirando in solitudine per mesi. Tutti gli animali morirono di fame perché nessuno li sfamava.
George cominciò a dare segni di squilibrio mentale. Mesi di solitudine e pensieri oscuri, lo avevano reso pazzo.
Al culmine della sua malattia mentale, uscì di casa zoppicando e blaterando frasi senza nesso.
Arrivò alla stalla, guardandosi attorno in paranoia, e aprì la porta. Un tanfo di morte e cadaveri marci, colpi come un pugno, la faccia del guardiano che cadde a terra.
Si vomitò sulla giacchetta e si rialzò a fatica ancora più frastornato. A quel punto, con un grande sforzo sia fisico che mentale, cercò di girarsi verso l'oggetto misterioso. Era li, come sempre. si avvicinò e lo prese in mano: era leggero e gelido. Appena lo girò da tutti i lati per capirne il mistero, si accorse cosa aveva in mano e tutto gli fu chiaro.
La forma aliena diventò allora, molto familiare: era solamente il cubo di cartone anti pioggia, che avevano lasciato gli operai quando costruirono la casa e la stalla.
George, si mise a ridere come solo un pazzo può ridere. Rimase li per vari minuti, con la scatola in mano.
Poi la lasciò cadere a terra. La scatola si aprì, e con stupore, George vide un'oggetto mai visto, quasi alieno, rotolare dalla scatola aperta. Cos'era?

lunedì 4 febbraio 2008

Verità

Rimase impietrito, incredulo. L'angoscia e una forte forma di inutilità lo pervase.
La verità gli era capitata davanti gli occhi: la città era finta. Ogni edificio era una ricostruzione, ogni persona era un attore, perfino i genitori, gli amici. Sullo sfondo erano sempre accesi ologrammi, che davano la sensazione di spazi aperti, creando l'illusione di potersene andare quando si vuole. In realtà la città di cartapesta, era ampia solo qualche chilometro. Era una prigione olografica dove era stato cresciuto, dove aveva vissuto nell'incompleta inconsapevolezza.
Lo vedeva bene adesso. La realtà era li davanti, come vedere da un velo squarciato, un velo che copriva da sempre, la grande bugia. Per quanto potesse essere assurda, era una realtà familiare, forse, pensò, l'aveva sognata. Come se, in fondo, nella sua anima, avesse sempre saputo.
Il vuoto lo trafisse, e rimase immobile a fissare. A fissare per ore, senza pensieri.
Era morto.

domenica 3 febbraio 2008

La belva al 4° piano

I poliziotti fecero irruzione nel vecchio hotel fracassando la porta d'ingresso.
Nella hall vuota, rimbombavano i rumori dei passi e delle urla del commissario.
Gli scarafaggi scomparvero sotto i divani e nei muri.
Al 4° piano, la belva era in agguato.
Aveva già ucciso 3 sbirri e poi altri civili. Adesso tutta la polizia e i corpi speciali erano in allerta.
Non sapevano bene cosa fosse realmente. Era fuggito da un laboratorio uccidendo gli scienziati e le guardie della security.
Sapevano solamente che non era umano. Forse lo era stato una volta, prima di morire, ma ora aveva perso tutte le caratteristiche di un uomo. Tranne per i sentimenti primordiali.
Era diventato un mostro, gli avevano alterato il fisico con anni di esperimenti, senza diritti si erano impossessati del suo corpo, anzi, del suo cadavere, e lo avevano riportato in vita e modificato a loro piacimento.
Si sentì sfruttato e così decise di ucciderli tutti e scappare. Si voleva nascondere, scomparire. Pensò persino di togliersi la vita.
Nella camera appena illuminata del 4° piano, si guardò in uno specchio a mura, la sua figura intera, riflessa nello specchio. Era orribile. Pianse.
Di sotto invece, la potenza e la cattiveria regnavano. I poliziotti avevano già perlustrato i piani inferiori ed erano sempre più vicini.
Forse era meglio così, penso la belva. Non sono più umano, sono già morto una volta, meglio aspettare che i poliziotti mi facciano fuori. Come biasimarli? Me lo merito. Per loro sono solo un'animale.

Intanto il commissario, un uomo obeso, stretto nella sua uniforme pluridecorata, teneva alto il morale delle truppe. Gridava a squarciagola. usando termini da film poliziesco: era un suo divertimento, si sentiva importante. Incitava a fare fuoco su qualsiasi cosa si muovesse, qualsiasi cosa sospetta, di agire senza pietà, di sfondare qualsiasi porta. Gli agenti dal loro canto, si aggiravano nell'hotel vuoto e stantio, tenendo alta la sceneggiata del loro comandante.

Al 4° piano intanto, la belva, spoglia di ogni suo vecchio aspetto umano, ma disperato come l'essere più umano al mondo, aspettava la sua fine.

sabato 2 febbraio 2008

venerdì 1 febbraio 2008

Come sono morto

Quanto ho dormito? Mi pare un'eternità.

Il libro appoggiato sulla mia scrivania mi sta fissando.
Un libro con la copertina dura, bianca, senza scritte.
Un libro piccolo e snello.
Che libro è?
Mai visto un libro del genere.
Cosa tratterà? A occhio potrebbe essere un libro per bambini, ma anche un romanzo o un saggio per adulti.
Non lo so proprio. Mai visto questo libro. Che ci fa qui? Ieri sera quando ho chiuso tutto, non c'era, ne sono sicuro.
Prima di sfogliarlo, mi viene in mente senza motivo, il ciclo di vita di un libro: dall'idea dello scrittore, la ricerca dell'editore, la stampa, fino alla creazione della carta.
Quanta carta consumata per stampare tutte le copie? Quanti alberi morti? Quanto inchiostro tossico? E perché no, quanti animali?
A che ora è stato stampato? In quante mani è passato?
Ogni stupida domanda mi passa per la testa. Forse è solo una scusa per non aprirlo. Ma perché avere tanta paura per un libro? Non uccide mica...
Così con una briciola di dignità e coraggio, prendo il libro misterioso e lo apro.
Sulle prime pagine leggo il titolo di quello che dovrebbe essere un romanzo, e mi spavento: "COME SONO MORTO" di Robert Foster.
Ma sono io!
Un turbinio di emozioni mi fa esplodere la testa. Non ci capisco più niente. Allora sfoglio fino al primo capitolo. Le prime parole sono: "Mi chiamavo Robert. Sono nato..."

Sudo freddo, c'è la storia della mia vita per filo e per segno, ogni pensiero, ogni giorno, com'è possibile?
Tremando, riesco a leggere qualche frase in tutto il libro. C'è la mia vita. Tutta.
Ma il libro finisce presto, e arrivo all'ultimo capitolo.
Comincio a gelare, il braccio sinistro informicolito, il cuore sta per esplodere in petto, quando leggo: "Quanto ho dormito? Mi pare un'eternità"